Migranti: storia di Duda e di migliaia di altri

Duda  è il nome di fantasia di uno degli studenti senegalesi che frequentano la Penny Wirton di Senigallia. Paola Via, insegnante volontaria nella scuola d’italiano gratuita per migranti della città marchigiana, spiega che è “uno dei primi ad essersi iscritto” nell’introdurre questa lunga chiacchierata con lui. e non c’è altro da aggiungere, la storia di Duda parla per lui e per le migliaia di uomini e donne che affrontano con coraggio viaggi impensabili per costruire un futuro migliore, per loro, per le loro famiglie, per tutti noi che speriamo in un mondo multiculturale e unito nel rispetto dei diritti umani fondamentali.

Storia di Duda o di migliaia di altri migranti

Sono nato il 15 aprile 1992 a Beude Fourage, una città della regione di Luga, in Senegal. Mio papà è morto a 86 anni nel 2016 quando ero da poco arrivato in Italia. Lui aveva tre mogli, da cui sono nati i miei tre fratelli e tante sorelle, non so dire quante. La mia famiglia è molto povera, mangiavamo sempre riso bianco o rosso, che non bastava mai per tutti, così all’età di circa sette anni mi mandano a vivere con il nonno. Di lui ho un bel ricordo. Mi ha insegnato il Corano. La mattina, prima di andare a scuola, mi portava a vedere gli animali, le capre, le mucche e i cavalli. Il nonno viveva in una fattoria.  I primi tempi andavo anche a scuola.

A un certo punto il nonno mi porta da una Marabù, un sacerdote. Lui è un capo. Controlla tutto e si lavora per lui. Ma non si vive con lui. Ero finito a Dahra, una città in periferia, con un altro capo che doveva a sua volta rendere conto al marabù. Qui ho vissuto quattro o cinque anni. Ero molto piccolo. Si lavorava nei campi dalla mattina alla sera, poi si andava a scuola di Corano. La vita sotto il Marabù era molto difficile perché se non facevi quello che diceva lui, ti ammanettava e ti picchiava con il bastone. Poteva capitare tutti i giorni. Oppure ogni due tre giorni. Non c’era una regola, a seconda di come gli girava. A volte non facevi niente e ti picchiavano lo stesso. Mi legavano mani e piedi con il filo della luce e mi picchiavano. Oppure mi bruciavano la pelle. La pelle sanguinava. A me è successo tante volte. Ho il corpo dietro la schiena e nelle gambe pieno di cicatrici. Mangiavo male e dormivo male. Quindi decido di scappare. Ho dovuto provarci più volte perché mi hanno ripreso. Poi un giorno ci riesco, fuggo. Ma non torno dal nonno. Lui non mi picchiava, ma era molto severo.

Per questo torno da mia mamma Ndaye. Quando mi vede, sanguino da tutte le parti. Lei si impietosisce e mi tiene con sé. All’epoca mio padre non viveva con lei, ma con le altre mogli. Sono rimasto da mia mamma circa due anni. Lei mi fa studiare il francese a casa. Poi, poiché le bocche da sfamare sono troppe, mi manda dalla zia. Parto di nuovo e la raggiungo a Dakar. Qui stavo bene. Il marito della zia guidava i taxi. Io invece ho trovato lavoro come panettiere circa quattro o cinque anni. Lavoravo di notte. Guadagnavo circa 50 euro al mese, 10 li mandavo a mia madre, 10 li davo alla zia che mi ospitava a casa sua, i restanti 30 mi servivano per vivere e quello che avanzava lo mettevo da parte. In un anno ho raccolto circa 150 euro. Quindi decido di partire per guadagnare di più. I soldi non bastavano mai. Alla televisione vedo la vita in Italia. Lì la vita è bella, lì si lavora, lì si guadagna. Almeno pensavo così.

Quindi parto. Con un amico. Avevo 22 anni. Era il 2014, ma non ricordo il giorno preciso. Ci mettiamo d’accordo. Da Dakar prendiamo l’autobus per Tuba e arriviamo dopo un giorno (ai trafficanti inizio a pagare già 20 euro), qui ci fermiamo poco e ripartiamo subito, dopo due giorni arriviamo in Mali. Ho già finito i soldi. Per questo mi fermo in Mali qualche mese. Lavoro come muratore e panettiere finché non racimolo i soldi per pagarmi ancora il viaggio. Riparto sempre in autobus e dopo due, tre giorni arrivo in Burkina Faso. Qui conosco qualcuno che mi dice che posso arrivare in Niger. Ogni volta i trafficanti cambiano. Ogni luogo ha i propri e sono tutti d’accordo tra di loro. Spesso ci sono i controlli, la polizia e se non paghi, non passi. A ogni controllo perdevo tutti i soldi. Ogni posto di blocco mi fermavo a lavorare come muratore per potermi pagare il viaggio. Volevo andare avanti. Stavolta si viaggia su dei pick up di notte con circa cento persone alla volta, anche donne. Finalmente arrivo ad Agadez.

Ad Agadez, città del Niger, ci sono solo case di collocamento. È uno snodo cruciale del traffico di esseri umani.

Ci sono rimasto quattro mesi. Qui lavoravo, sempre come muratore, per pagarmi la tratta nel deserto. Non volevo tornare indietro perché la vita in Senegal è stata dura, non mangi tutti i giorni, non dormi, non hai amici. Vado avanti convinto. Ad Agadez ci picchiano, ci rubano i soldi. Ho visto amici legati a testa in giù. Non ci danno da mangiare. Non bevi. A volte sparano. E qualcuno muore davanti ai tuoi occhi. Ho visto i miei amici morire. Pensavo alla famiglia. Ho pianto molto. Ma capisco che se voglio sopravvivere, devo farmi più furbo. Chi non lo è, non ce la fa. Ho capito subito che dovevo nascondere i soldi in più parti del corpo. Ho tagliato la suola delle scarpe e una parte la nascondevo lì e dentro le cuciture dei vestiti. Era l’unico modo.

Da Agadez dobbiamo attraversare il deserto. Il viaggio è durato una settimana; mangi e bevi pochissimo, solo cous cous senza niente e fa molto freddo la notte. Alcune persone sono cadute dal pick up e sono rimaste lì. In mezzo al nulla. Nessuno fa o dice niente. Anche io dormivo soltanto e non parlavo con nessuno. Non avevo il coraggio di parlare. Arriviamo in Libia. Prima a Sebha. Altra casa di collocamento, dove rimango un mese. Ma qui si sta meglio, la situazione è più tranquilla, picchiano di meno. Eravamo circa due-trecento persone in una sola casa. Pensavo di aver passato il peggio, invece doveva ancora arrivare. Sono a Tripoli e qui mi succedono cose bruttissime. Ci rimango tre mesi, ma non sono certo, perdo il senso del tempo. Stiamo tutti appiccicati in stanze buie, dormivamo uno sopra l’altro, non c’era spazio, aria, acqua cibo. Le pulci ci mangiano la pelle fino a farci uscire il sangue. Se stai male, non c’è un ospedale. Muori lì. Non è un problema. E tutti stavamo male. Mal di testa, mal di pancia, mal di gambe e braccia. Mangiavo il sangue delle punture degli insetti per la fame. Tutti camminano con la pistola. Vivi nel terrore, perché possono spararti da un secondo all’altro senza motivo. Poi finalmente trovo i soldi. Se non hai quelli, non vai avanti. Come ho detto, io li nascondevo ovunque. Ci portano in un campo vicino al mare. Ci fanno salire su un gommone, siamo circa 70, 80 persone. Partiamo a mezzanotte. Ci danno un telefono satellitare e nient’altro. Si rompe anche il motore ed entra l’acqua. Qualcuno cade in mare. Il viaggio dura una notte. Poi ci trova la Guardia Costiera. Io ho sofferto il mal di mare e ho patito tanto il freddo. Ci fanno scendere a Lampedusa. Qui veniamo controllati dai carabinieri e ci portano nei centri di accoglienza, dove dividono i maschi dalle femmine. In questo centro rimango per un periodo. Non so dire quanto. Non mi hanno trattato male, ma neanche bene. Da Lampedusa vengo mandato in un altro centro a Macerata, da qui a Marotta, dove vivo con altri ragazzi dal 2016, anno del mio arrivo in Italia.

Due anni per arrivare in Italia.  Per fortuna questi ragazzi africani più grandi di me mi hanno aiutato. Prima non li conoscevo. Ora sono la mia famiglia. Mi hanno dato una stanza. Purtroppo in questi due anni non sono riuscito a trovare un lavoro. Solo un mese ho lavorato in un’azienda agricola a Serra dei Conti. Dovevo uccidere gli animali. Ma non mi hanno mai fatto firmare un contratto. Continuavano a rimandare, domani, domani… e non mi hanno mai pagato. Così me ne sono andato. Ora faccio l’ambulante. Vendo della merce che mi arriva da Milano dai rom. Non ho alternative. Con questo lavoretto a volte guadagno 20 euro al giorno, a volte niente. Dipende. Però al mese devo pagare 100 euro di affitto, più le spese per acqua e luce. Quindi cerco lavoro. Ho mandato tanti curriculum. Ma senza risultato. Anche gli amici della Penny Wirton, che ho conosciuto grazie all’aiuto di una ragazza, hanno fatto dei tentativi, ma per ora non ho trovato nulla. Ho fatto richiesta di asilo politico e ho un permesso di soggiorno che va sempre rinnovato.

I momenti più brutti in Italia sono stati i controlli, gli inseguimenti, la polizia. E poi quando fa freddo e giri per trovare qualcosa da mangiare. L’Italia non è come me la immaginavo. È peggio. C’è tanta brava gente che mi ha aiutato, ma anche tanta gente cattiva. Ho ricevuto insulti orribili, tanti, tantissimi. Anche le parole fanno male. Io non ho mai rubato. Non è mia abitudine. Non sono stato educato a fare certe cose. Piuttosto soffro la fame. Resto qui, solo se trovo lavoro. Altrimenti voglio andarmene. Un giorno, se avrò i soldi, torno in Senegal. Mia mamma mi manca tantissimo. Ogni tanto la sento.

Alle persone che, come te, stanno arrivando in un nuovo Paese, cosa vuoi dire?
Di non mollare mai. E di avere tanto coraggio.

E ora? Come vedi il tuo futuro?
Il futuro non lo vedo.

Agli italiani invece cosa vuoi dire?
Di essere gentili.

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