Volontariato: Hira e la forza della Dad

L’abbiamo scoperta nel periodo più drammatico della pandemia e abbiamo sperato per mesi di tornare a far lezione in presenza, ma la didattica a distanza ha i suoi lati positivi. Nel caso della trentenne nepalese Hira le ha permesso, nonostante il trasferimento da Trieste a Torino, di poter continuare a far lezione con l’insegnante con la quale ha iniziato.

Una bella storia che mette al centro il rapporto uno a uno e la relazione umana che ne scaturisce: elementi fondanti del metodo della Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti.

Hira e la forza della Dad

di Marina Del Fabbro

Hira e il marito Jayram, trent’anni lei, ventinove lui, sono nepalesi e li ho incontrati lo scorso ottobre alla Penny Wirton quando si poteva fare lezione in presenza. Con il lockdown abbiamo dovuto ripiegare sugli incontri online e infine, escluso qualche breve messaggio, li ho persi di vista. Lui è andato prima ad Arezzo per lavorare come scaricatore e poi a Roma in un magazzino gestito da cinesi. Lei poco dopo si è trasferita a Torino dove una “sorella” tibetana le ha procurato un lavoro come badante. I ritmi di lavoro di entrambi sono molto serrati: se ho ben capito, lui lavora sette giorni su sette, 14 ore al giorno, tranne la domenica pomeriggio e lei ha liberi due pomeriggi e una domenica ogni sue settimane.

LE LEZIONI. Come sperare di continuare le nostre lezioni? Eppure, ci siamo ritrovate, grazie alla didattica a distanza.
– Ciao Hira, che piacere rivederti!
– Ciao maestra, come stai?
– Io bene, ma tu, Hira, qualche problema? Ti vedo triste, piangi?
– No, maestra, bene, tutto bene…
E invece no: si vede benissimo che Hira sta piangendo. Ma di commozione, per la gioia di rivederci. La sua emozione mi contagia. In effetti è una vera inattesa gioia rivederci dopo tanti mesi, non ci speravo più.

HIRA. Il viso di Hira è lo stesso, ora però ha i capelli più lunghi. Subito mi mostra il nostro quaderno che ha portato con sé e da cui in questi mesi ha studiato e poi, timidamente, si apre la giacca: la maglia che ha addosso è una di quelle che abbiamo racimolato qui a Trieste. Ma anche io ho qualcosa che mi ha dato lei: la tazza da caffè che ha voluto regalarmi prima di partire. Adesso mi pare ben sistemata, ma quando sono arrivati lei e il marito erano davvero molto, molto persi: non conoscendo la lingua e assolutamente disorientati, spendevano malissimo il loro pocket money, al punto da trovarsi in pieno inverno in maniche corte, senza giaccone, senza coperte e persino la dispensa quasi vuota.

L’AMICIZIA. La nostra amicizia è stata bella fin da subito: seppur con molta fatica, mi hanno confidato di essere venuti a piedi dal Nepal spinti dalla povertà: benchè massaggiatrice, lei, e contadino, lui, non avevano abbastanza per vivere. Io ho cercato di sopperire alle loro più macroscopiche necessità e di insegnare un po’ di italiano. Loro mi hanno insegnato qualche parola di nepalese, mi hanno fatto conoscere le loro feste, e resa partecipe dei loro sogni.

I SOGNI. Hira e il marito sono entrambi di grande finezza. Lei in particolare ama la cultura, le piacerebbe visitare musei, leggere. Con molta timidezza mi ha mostrato un sottilissimo libricino di poesie scritte da lei. E mi ha inviato una fotografia in cui è insieme alle sue amiche nepalesi in occasione della festa Teej, antichissima festa induista, tutta al femminile, in cui le donne sposate pregano per la salute del compagno, a ricordo della devozione di Parvati per Shiva. Hira e Jayram sono entrambi induisti. Purtroppo non ho fatto in tempo ad accompagnarli nel tempietto tibetano che abbiamo qui a Trieste, ma ho avuto un’idea. Le ho suggerito di visitare lo straordinario Museo Egizio di Torino.

– Namastì, Hira
– Namastì, maestra.
Ci salutiamo così. È il saluto nepalese. Va fatto a mani giunte, accompagnato da un piccolo inchino: elegantissimo.

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