Migranti: Loai e tutti i bambini nati grandi

Siete l’Italia migliore” oppure “grazie per quello che fate”: sono due delle frasi che i volontari della Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, si sentono dire più spesso. Eppure dietro le lezioni, anche in didattica a distanza, gli insegnanti spesso lottano con molti timori: soprattutto quando si tratta di minorenni che, una volta raggiunta la maggiore età, formalmente non hanno più diritto di stazionare nel nostro Paese.

Marina Del Fabbro, volontaria della Penny Wirton di Trieste, affida a questo post la sua preoccupazione per il giovane Loai, ragazzo egiziano con cui ha perso i contatti.

Loai, rispondi!
di Marina Del Fabbro

Con Ahmed, Mustafa e Loai, tre ragazzi egiziani, era iniziata bene. Facevamo italiano due volte a settimana, imparavano velocemente, avevano tanta voglia di apprendere, inserirsi, non vedevano l’ora di poter lavorare

Un brutto giorno è arrivato il diniego dalla Questura: giunti in Italia da minorenni ma ormai diventati maggiorenni, non più studenti e non ancora lavoratori, non potevano più restare nel nostro Paese. Che fare? Dall’oggi al domani, racimolati in qualche modo i soldi del biglietto, sono partiti: uno per Arezzo e due per Milano dove un amico egiziano li avrebbe ospitati e poi dato loro un lavoro. E così non li ho più visti.

Mustafa e Ahmed, meno scolarizzati, hanno mandato un vocale ai loro operatori Caritas per dire che non intendevano più imparare italiano perché ormai, trovato il lavoro,  la cosa non era più necessaria. Loai, invece mi ha chiesto: “Posso continuare?”. “Ma certo! Colleghiamoci”, ho risposto subito. Così per un paio di mesi abbiamo fatto italiano a distanza, regolarmente, due volte a settimana. Ho visto che si era portato dietro il nostro quaderno. Ho fatto fatica a non tradire una certa commozione.

“Loai, mi mostri la casa?”
“Mmmm, no maestra, non tanto ordine…”
“Loai, di chi è la casa?”
“Amico.”
“Chi paga il pranzo?”
“Amico.”
“Il lavoro, chi te lo darà?”
“Amico. Amico mi dà anche tessera bus. No, no bus, tessera sanitaria per lavoro.”
“Loai, ma tu non hai documenti, non puoi avere la tessera sanitaria. Mostramela. Il lavoro, che lavoro è?”
“Tessera arriva in mese. Lavoro non so.”
“Hai conosciuto qualcuno lì a Milano, hai visto il Duomo, parli italiano?”
“No, tutti egiziani, italiano solo con te.”

Così per due mesi. Poi, all’improvviso, silenzio.
Finché un messaggino.
“Maestra, no italiano, lavoro.”
“Che bello, lavori! Ma quante ore? Ti pagano? Che fai?”
“Lavoro, sì, tanto, troppo, tutto giorno, sempre. Paga ancora no. Dopo. Ma squadra italiani tanto bravi. Sto bene maestra, tu come stai?”
“Io bene, ma tu?”
E un altro silenzio.

Dopo due mesi torno a farmi sentire.
“Loai, sono passati due mesi: ti hanno pagato?”
“Dopo”, risponde.
“Loai: sei contento, sei stanco? Chiama”, ribatto e la risposta forse s’impiglia nel vortice dei messaggini telematici.

Resto, aspetto. E mi chiedo come mai certe storie, proprio a un passo dal lieto fine, non finiscono. O almeno non finiscono come dovrebbero.

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