Somalia: Mohamed, un adolescente in cerca di pace

Mohamed Abdirahman Ahmed ha diciannove anni. È nato in Somalia, a Mogadiscio, dove da oltre trent’anni imperversa una guerra civile che nell’ultima fase, dal 2006 in poi, ha visto contrapporsi al governo internazionalmente riconosciuto, in un primo tempo i ribelli dell’Unione delle corti islamiche e successivamente i gruppi di Al-Shabaab, legati al terrorismo islamista.

Quando Al-Shabaab ha iniziato a metter radici nella sua Mogadiscio in molte famiglie è iniziato l’incubo dei bambini soldato che vengono arruolati per la causa terroristica. Un incubo che ha portato Abdirahman ad affrontare il lungo viaggio dalla Somalia all’Italia. Una parte dei suoi ricordi è qui, in questo racconto che ha scritto nell’anno scolastico 2018-2019 alla scuola Penny Wirton di Roma e con il quale si è classificato tra i finalisti del contest a tema “La pace oltre la guerra” di Save the Children.

La pace è non fare la guerra
di Abdirahman Ahmed Mohamed

Pace non è fuggire dalla guerra. Pace è non farla la guerra. E questa è la storia di quando ho detto no alla guerra. Sono nato a Mogadiscio. In famiglia eravamo in sette: mamma, papà, tre figli maschi e due femmine. Mio padre è morto il 20 settembre del 2014. Mio padre era una persona intelligente, era molto attento a noi, controllava molto quello che facevo a scuola. Quando mio padre è morto non avevamo i soldi per mantenerci. La scelta era tra il cibo e la scuola, per questo alcuni dei miei fratelli non sono potuti andare a scuola. Il fratello più grande è andato a lavorare, quelli più piccoli non andavano a scuola. Io ero l’unico ad andare a scuola. Frequentavo una scuola coranica e un maestro di questa scuola, Mostafa, apparteneva ad Al-Shabaab. Questo maestro parlava di Al-Shabaab in modo positivo e cercava di reclutare ragazzi. Molti lo seguivano.

Dopo la morte di mio padre, Mostafa non ha iniziato sin da subito a parlarmi di Al-Shabaab. Inizialmente ha stretto amicizia con me. Mi portava caramelle, vestiti. Voleva sostituirsi a mio padre. Mi diceva che era come mio padre. Io accettavo i regali, prendevo tutto. A volte ci dava del cibo da cucinare a casa. A marzo del 2015 Mostafa ha iniziato a parlarmi di Al-Shabaab e ad aprile mi ha detto di andare alla caserma e seguire i loro ordini. Mi ha detto che mi avrebbe accompagnato alla caserma con altre persone appena sarei stato pronto. Io ho detto che accettavo, solo per potermene andarmene a casa ma non sono mai più tornato a scuola.

Mia madre aveva paura. Voleva trasferirsi in un altro quartiere di Mogadiscio, ma non avevamo i soldi per andarcene. A maggio del 2015 sono scappato da solo. Volevo raggiungere l’Arabia Saudita. Ho provato ad attraversare il confine ma gli Huthi yemeniti mi hanno messo in carcere. Un gruppo di mediatori ci ha mandato in Sudan, invece di rimpatriarci in Somalia come era stato deciso. Abbiamo trascorso due giorni in una stanza chiusa e poi ci hanno mandato nel deserto. Dopo quattordici giorni sono arrivato al confine con la Libia, a Kufra. Lì sono rimasto in una casa sorvegliata da gente armata, eravamo in mille in questa casa. Soltanto alla fine sono arrivato in Italia.

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