Migranti e nozze: certe favole di oggi

Per la giornata di San Valentino, giornata dell’amore e degli innamorati, proponiamo il racconto di una testimonianza che arriva dalla Penny Wirton di Roma e che vede protagonista un migrante siriano e un matrimonio, come s’usa dire in questi tempi di Covid, a distanza.

Certe favole di oggi
di Luisa Monforte

Khalil si è sposato. Lo so che non è una grande notizia, che non è mica una roba strana che uno si sposa. La gente fa così, in tutto il mondo e pure nelle favole. Le persone si innamorano, sfornano bambini, crescono, ridono e piangono.

Questo matrimonio qua, però, più che al lieto fine di una favola assomiglia un po’ a quel finale che aspetti per ventiquattro libri e finalmente Ulisse arriva a Itaca. E, sorpresa!, Penelope sta ancora là: manco un piccolo raffreddore l’ha distratta dalla sua tela, però quando è il momento lei a Ulisse non lo riconosce e allora lo sottopone a un’ultima prova. Che la vita quest’è, uno scorrere di accidenti attorno a un attimo di pace.

Ecco, queste nozze di Khalil sono un po’ così. Per questo mi sono detta che forse vale la pena di raccontarle. Dopotutto è solo dalla prospettiva di certe storie che si capisce un po’ la vita.

La prima volta che l’ho visto, Khalil, aveva qualcosa come trentatré anni. Non lo sapeva dire quanti anni aveva, lo aveva scritto con uno scarabocchio sopra un foglio e io non avevo capito. Con le dita poi mi aveva mostrato due volte un tre, ma anche un tre e un quattro. E io, grazie al mio Qi sopra la media, dopo solo un quarto d’ora di gesti, segni e grugniti, ho intuito che non poteva avere 3334 anni, quindi gliene ho dati su per giù quelli che dimostrava: tra i trentatré e i trentaquattro.

Khalil a quel tempo aveva in bocca solo tre parole, e due non le sapeva usare bene. Così diceva “ciao” e nient’altro quando salutava, per evitare fraintendimenti tra “buongiorno” e “buonasera”. Aveva le braccia incrociate sempre, gli occhi che non potevi capirne il colore perché guardavano solo il pavimento, una kefiah rossa al collo. Le labbra serrate, come i negozi quando cala la sera: non conosceva rabbia, ma nemmeno il sorriso. Noi altri, volontari della Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, di Roma quando lo abbiamo visto entrare nelle sale a Casal Bertone ci siamo subito messi lì a parlottare tra di noi, chissà che cosa mai gli era successo a questo ragazzo che guardava per terra e che, si era deciso, lo avrei seguito io lungo la strada che doveva andare dal non detto alla parola.

Io non glielo ho mai domandato a Khalil che cosa gli è successo in tutti i giorni che stanno prima del nostro incontro sospesi tra la Siria, il Libano e la Libia. Lui, però, me lo ha raccontato lo stesso: era una mattina di aprile, che Khalil già parlava un po’ e su piazza Venezia volavano le frecce tricolore. Io avevo insistito ché venisse a vederle, volevo che si portasse via negli occhi – se mai se ne fosse andato in Germania, come pensava di fare ogni tanto –  un’immagine che gli ricordasse per sempre la libertà che in Italia era venuto a cercare. Così quella mattina avevamo aspettato. Due ore in piedi davanti a una transenna. Avevamo ingannato l’attesa: io a parlare della resistenza, dei partigiani e del fascismo, del bianco, del verde e del rosso che sarebbero scivolati via dagli aerei militari per stagliarsi, e poi subito confondersi, nell’azzurro del cielo; lui a mimare della sua terra marrone, dei piccioni sui campi coltivati e della guerra, nera come certe avventure sui camion, come certi mari costeggiati da mine e filo spinato. Non so quanto ci siamo capiti per davvero. Conta, però, che i passaggi importanti io li ho intuiti e sono due. Uno: era sempre notte o comunque buio pesto nel suo passato ma nel presente c’era finalmente il sole, anche se a quell’ora era ancora troppo alto e abbagliava la vista; due: la vita è proprio come quella mattina lì, se vuoi vedere gli aerei volare devi credere, in ogni istante delle due ore che resti in piedi, che vale la pena faticare per quei cinque minuti che starai con il naso all’insù e ti mancherà il fiato.

Comunque, ora voglio dire del matrimonio di Khalil, dell’ultimo canto della sua odissea e non dei ventitré libri di dolore e sventure. Ma prima devo dire che quando Khalil è arrivato alla Penny Wirton io non ero una volontaria navigata. Ci andavo da qualche mese forse, non di più. E c’ero arrivata come un’adolescente. Da internet, dopo aver letto un articolo su un giornale e un post su Facebook. Degli adolescenti, credo, ci avevo anche gli occhi catatonici e innamorati di tutto perché più di uno tra i volontari storici mi ha chiesto da che liceo venivo e mi ha ricordato che mi dovevo segnare su un foglio per ricevere i crediti. Ho pure un attimo pensato di fare la vaga, ma poi ho confessato che andavo più per i quaranta che per i quattordici, e ho ringraziato.

Questo per dire che non avevo grande esperienza da insegnante e così non mi sono preoccupata troppo quando mi sono trovata Khalil davanti torvo e silente. La fortuna del principiante o il coraggio dell’incosciente, che dir si voglia. È vero pure che nutro una tenace stima nella provvidenza che finora non mi ha deluso. Va be’,  qualche volta sì e l’ho perdonata, ma con Khalil non mi ha tradito. Infatti, io non lo so com’è, ma noi due ci siamo capiti, pure se lui parlava solo curdo e arabo, a parte “ciao” in italiano, e io parlo solo italiano a parte “hello” in inglese; pure se lui quasi non sa leggere e scrivere (che in certi posti della Siria funziona che se sei curdo a scuola ti fanno capire che se non ci vai è meglio), e io cercavo aiuto nei vocabolari, nei quaderni e nella parola scritta.

Sta di fatto che in qualche modo io ho scoperto che per fortuna non possiamo e non dobbiamo spiegarci tutto a questo mondo, che per fortuna le persone parlano anche se non hanno voce. Così “ciao” è diventato “buongiorno” al mattino e “buonasera” quando calava il buio, e poi “buongiorno” e “buonasera” sono diventati solo “buono” accanto alla pizza e al caffè, e “buono” si è ribaltato in “cattivo” che per lui, che è musulmano, sta sempre bene davanti all’alcol e al salame.

Un giorno, durante una lezione, gli ho detto che il vino per me non è cattivo. Lui ha sorriso aggrottando le sopracciglia e io ho saputo che non gli piaceva che bevessi vino ma anche che poteva perdonarmelo, forse perché gli stavo insegnando l’italiano, o forse perché mi ero a presa a cuore quella faccenda di suo fratello, o forse per qualcuno di quei perché che non siamo in grado di spiegare. Comunque, io ho colto l’occasione e gli ho fatto sapere pure che sono vegetariana. E “vegetariana” è stata la nostra parola magica, quella che ha aperto una nuova via di comunicazione. Lui, non lo so come, ha capito e d’istinto ha risposto, in curdo però. Io non ho capito e lui ha ripetuto, in arabo però. Io ho continuato a non capire. “Abbiamo qualcosa in comune, non mangiamo il maiale”, ha scritto in arabo sul cellulare e Google traduttore me lo ha restituito in italiano. È stato in quel momento che io ho avuto una rivelazione di cui non sarò mai grata abbastanza a Khalil, alla Penny Wirton e alla provvidenza: ho capito a che serve Google traduttore, anche se traduce malissimo. 

Serve che, da Khalil, io ho potuto imparare che: il the con le bustine del supermercato non è buono; il caffè va preso amaro anche se continuo a berlo zuccherato, i datteri non si mangiano mai in numero pari; i suoi libri, compreso il Corano che mi ha regalato, si leggono dalla mia ultima pagina; le foglie d’uva sono commestibili ma vanno prima bollite; la gente maleducata è anche brutta, e per questo non devo arrabbiarmi con i razzisti perché a loro la natura li ha puniti e a me no.  Da Khalil ho imparato anche come si dice “brutto” e “bello” in curdo ma l’ho dimenticato, come si dice “libertà” e “speranza” in arabo e non l’ho scordato. E ho imparato soprattutto che dove io vedevo solo un pavimento bianco, i suoi occhi che guardavano per terra vedevano lunghe giornate sotto il sole e, sopra le terrazze che affacciano sui villaggi, guardavano braccia stanche che impastavano il calcestruzzo. Case, che a lui ci sono voluti anni a costruirle, pochi giorni per lasciarle, ma ad altri sono bastati dieci secondi e un lampo per distruggerle.

È questo il suo lavoro. Khalil tira su case. Gli ho detto un sacco di volte che si dice “muratore”, lui insiste che si dice “cartongesso”, come gli hanno insegnato allo Sprar, e dice “io fa il cartongesso”. È una questione di principio. Non è che non lo sa dire muratore. È testardo, non cambia idea. Questo io l’ho capito subito di lui. E ho saputo subito che questo suo difetto era anche la sua salvezza. La testardaggine lo ha condotto qui in Italia, vivo, gli ha fatto trovare una casa e un lavoro, a Roma, e ora gli ha dato una moglie. Ce l’ho pure io questo difetto, che certe volte è un pregio, quindi lo perdono a lui e a tutti quelli che ce l’hanno.

Tornando al suo matrimonio, di tutte le cose che io e Khalil ci siamo raccontati mai abbiamo parlato di mariti e mogli, fidanzate e fidanzati. Eppure io, chissà com’è che – pure se lui non mi aveva mai detto nulla – lo avevo capito che c’era qualcosa che gli faceva male nel cuore all’altezza dell’amore. Ma avevo paura a domandare, vedi mai che ha una fidanzata che gli è successo qualcosa di terribile, pensavo e non avevo il coraggio di chiedere.

L’altro giorno mi ha chiamato. Prima scriveva soltanto messaggi che copiava da Google traduttore, ma ora parla abbastanza bene, se ha da dirmi qualcosa chiama. Ora ha una casa e lavora. “Fa il cartongesso” al mattino e alla sera aiuta alcuni amici siriani in una pizzeria a Montesacro. Al telefono mi dice che “c’è ‘naugurazione alla pizzeria, tu benvenuto”. Rispondo che andrò a prendere un caffè. C’è stato un cambio di gestione, se non ho capito male. Comunque festeggiano e io sono invitata. “Tu mangia, c’è cous cous”, mi spiega. “Vado già a pranzo fuori, non mangerò di nuovo alle quattro del pomeriggio”, rispondo. “Non c’è carne, cous cous vegetariano”, mi ricorda e mi saluta.  

Vado. È una domenica di febbraio, un po’ piove ma quest’anno non fa un gran freddo a Roma. Menomale, penso passando davanti alla stazione dove hanno trovato riparo quelli che non hanno una casa e che sono sempre di più. Scendo dall’auto, Khalil mi viene incontro. Invece che i jeans e la kefiah, ha una veste lunga e colorata. Una volta su un libro ho letto che è l’abito da festa degli uomini nei paesi arabi. “Io ha sposato”, esordisce. Voleva dirmelo così, guardandomi negli occhi e allora io gli occhi li sgrano. Mi torna in faccia quella faccia che avevo il primo giorno che sono entrata alla Penny Wirton. Lui parla, io ogni tanto dico che non ho capito ma per lo più, adesso, comprendo quel che racconta. Apprendo che lei è in Siria, che loro due erano promessi da sempre, che il matrimonio è avvenuto per corrispondenza e lei verrà qui a Roma grazie a un ricongiungimento familiare, arriverà in aereo non come è venuto lui. Ci vorrà qualche mese di attesa.  È la tua ultima prova, amico mio, come Ulisse con il talamo, penso ma non lo dico, quel che conta è che ora lui sorride. Lei verrà in Italia e vivranno felici e contenti, lei starà in casa e farà bambini. “Lei non lavori, io lavori, io mi piace più così”, dice Khalil. “Non sono d’accordo, ma lo rispetto”, rispondo in un abbraccio e non aggiungo altro. Lui ride. Lo sa anche lui che a noi due ci separano muri che si valicano solo così, con un abbraccio e perché ci vogliamo bene.

Mi prepara un caffè. Lo bevo mentre lui mi riempie una busta di dolci che pesa un paio di chili e che dovrò regalare se non voglio finire in coma glicemico. “È troppo”, provo a protestare. “Oggi festa, io ha sposato”, mi mette a tacere. Si fa l’ora di andare. C’è il Covid, il Lazio è in zona gialla e i locali alle 18 devono serrare. È già buio. Sulla porta fumo una sigaretta prima di andare via. Lui volta un po’ la testa. È che non gli va proprio giù che una donna fumi, per strada poi!, ma – per i perché di sopra e di sempre – ci passa su e mi invita alla grande festa di nozze che si terrà, Covid permettendo, quando lei sarà in Italia. Forse a giugno. “Ma niente regalo tu”, dice. “Italiano a moglie, tu questo regalo”, replica quando insisto e dico che un dono lo farò lo stesso.

Un anziano, uno dei tanti che dormono tra i mucchi di coperte fuori alla stazione, ci interrompe. Ha fame. Khalil si allontana, entra nel locale e ne esce con un piatto di riso, kebab e un bicchiere di the caldo. Quello, qualche spicciolo lo vuole lasciare. “Oggi non paga, ‘naugurazione, oggi festa”: Khalil regala tutto, anche quella I che non sa dire.

Io spengo la sigaretta. Cerco le chiavi della macchina in borsa. Arriva un altro barbone. Khalil con la testa e le mani gli dice che sì, ma deve aspettare un attimo. Lo saluto e mi avvio all’auto. Vai piano: Khalil non lo dice ma mi fa da lontano un cenno con la mano che vuol dire che non devo correre in tangenziale e anche che lui lo sa che affondo facile sull’acceleratore. Ora lo capisco davvero quanto sopravvaluto, a volte, le parole.

Annuisco. Metto in moto. Mi affaccio dal finestrino ma lui è già sparito nelle cucine della pizzeria. Sulla porta il barbone anziano ha ceduto il suo piatto a quello che è arrivato dopo e stringe tra le mani il bicchiere di the caldo, come fosse una grossa pepita d’oro.

Non fa molto freddo quest’anno a Roma, ma dipende pure da chi sei e dove vivi, da chi incontri lungo la tua strada o in mezzo al mare di notte. Io lo so, Khalil lo sa, pure se lui in italiano non lo sa dire. Allora stavolta ho parlato io per lui, che è così diverso ma anche così uguale a me, e con il dolore ci ha costruito una casa che dentro ci sta a pennello una favola.

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