Perché leggere “Il viaggiatore” di Boschwitz

Laura Bosio nella vita fa la scrittrice. E’ nata a Vercelli ma vive a Milano dove dal 2015 è responsabile della scuola Penny Wirton del capoluogo lombardo. E’ laureata in Lettere moderne e qui ci spiega perché dovremmo leggere Il viaggiatore di Ulrich Alexander Boschwitz. Lo dovremmo leggere, oggi più che mai, perché “le guerre cominciano prima della loro esplosione: si combattono a colpi di parole, di disprezzo che si diffonde, di odio che cresce. Si annunciano, ma pochi se ne accorgono”, scrive Laura. Lo dovremmo leggere perché parla di un tempo che sembra lontano ma è estremamente vicino, perché parla di chi fugge, di chi migra, di chi viaggia e parla di noi, che restiamo mentre la storia ci gira attorno.

Perché leggere “Il viaggiatore di Ulrich Alexander Boschwitz”
di Laura Bosio

“Apri, ebreo” intima una voce alla porta di casa. Otto Silbermann, stimato commerciante ebreo tedesco, sta negoziando la vendita del suo elegante palazzo di Berlino quando viene raggiunto da questo comando assurdo e insultante. È il 10 novembre 1938, il giorno dopo la Notte dei Cristalli in Germania, Austria e Cecoslovacchia: bruciate quasi millecinquecento sinagoghe, distrutti i cimiteri, i luoghi di aggregazione delle comunità, migliaia di negozi e case private, arrestati in massa giovani ebrei privati dei loro beni. I pogrom del regime nazional-socialista sono iniziati. Otto, spalleggiato dall’acquirente, riesce a fuggire dalla porta di servizio  e  per lui si apre una vita da fuggitivo. Si aggira per la città, sospettoso, preoccupato, in cerca degli amici, di un rifugio, ma niente è più come prima. “È cambiato tutto. Nel nostro intimo abbiamo perso ogni sicurezza e la vita ormai è fatta solo della casualità di cui siamo in balìa. Da soggetti siamo diventati oggetti”. In albergo gli chiedono i documenti, oppure alloggiano membri del Partito, lui si sente sempre osservato, dalla moglie non può tornare e in azienda neppure, incontra altri ebrei che teme lo “compromettano” e il figlio, da Parigi, non gli procura il visto per emigrare. Così salta su un treno, pur sapendo di mettersi in trappola: non può fermarsi, non può scendere, può soltanto sperare di far perdere le sue tracce passando da un treno all’altro in un andirivieni continuo. “Berlino-Amburgo, pensò. Amburgo-Berlino. Berlino-Dortmund. Dortmund-Aquisgrana. Aquisgrana-Dortmund. E forse sarà sempre così. Adesso sono un viaggiatore. In realtà sono già emigrato. Sono emigrato nelle ferrovie del Reich”.

Di stazione in stazione, la sua angoscia diventa quella del lettore. Otto, uomo sopraffatto, è l’emblema di tutte le anime costrette a soccombere al meccanismo della paura. “Un insulto con due gambe”. Con sé ha una valigetta con qualche decina di migliaia di franchi, tutto ciò che resta del suo patrimonio, e non ha intenzione di procurarsi documenti falsi o passare il confine di soppiatto. “Tutte le strade, ma proprio tutte, conducono in un abisso. Contro lo Stato non posso niente”. In breve tempo perde i suoi averi, la dignità e infine la ragione. “Sono ancora Silbermann, il commerciante Otto Silbermann? Non c’è dubbio, ma come ha fatto Otto Silbermann a cacciarsi in una situazione del genere?” si chiede, disperato.

Il viaggiatore vede la luce in Inghilterra nel 1939, poi cade nell’oblio. Ottant’anni più tardi, nel 2018, viene ripubblicato in Germania su un testo ristabilito da Peter Graf e diventa subito un caso internazionale. È l’editore Rizzoli a farlo uscire in Italia, con la traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli. L’autore, Ulrich Alexander Boschwitz, benestante ebreo come il suo personaggio, ha ventitré anni all’epoca della Kristallnacht ed è già fuggito dalla Germania. Scrive il suo romanzo di getto, in poche settimane, parte in Lussemburgo e parte, probabilmente, a Bruxelles, mentre è diretto in Inghilterra. Ma dal Paese in cui ha cercato riparo viene espulso, in quanto tedesco, e deportato in Australia. Nel 1942 si imbarca su una nave che trasporta esiliati di rientro in Europa e muore sotto un bombardamento della marina tedesca. Il dattiloscritto arriva fortunosamente a Francoforte sul Meno e oggi è conservato nell’Exilarchiv della Deutsche Nationalbibliothek. È la prima testimonianza letteraria sulla catastrofe europea del novecento, la descrizione in presa diretta del crollo di ogni legge umana di convivenza.

Le guerre cominciano prima della loro esplosione: si combattono a colpi di parole, di disprezzo che si diffonde, di odio che cresce. Si annunciano, ma pochi se ne accorgono. Non esistono ancora leggi specifiche, anche se le libertà iniziano a restringersi e i “colpevoli” vengono additati. Molti non capiscono di essere in pericolo, neanche i più diretti interessati. “Vivo come se non fossi un ebreo, pensò con stupore. In questo momento sono un cittadino minacciato, è vero, ma sono ancora ricco e finora nessuno mi ha torto un capello…” Il momento in cui Otto ne prende coscienza è drammatico. È costretto a riconoscersi un esule in patria. Amici e conoscenti gli voltano le spalle, si sforza all’occorrenza di fare il saluto degli ariani, sorride agli ufficiali, conversa con i passeggeri, ma l’ansia giorno dopo giorno lo stordisce. Vile e coraggioso, attratto e insieme sempre più respinto dal denaro, è una somma di tante piccole paure, testimone di una perdita di umanità che riguarda tutti. Dà un volto a ogni vittima anonima ed è uno specchio delle lacerazioni interiori di ciascuno.

 “Agli ebrei è vietato vivere… Vuole adeguarsi al principio?”
Anche ai migranti si cerca di vietare la vita. Ma noi no, noi non vogliamo adeguarci a questo principio.

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