Migranti: Farouk e il grande equivoco

Può un evento spiacevole migliorare la vita di una persona? Stando a quanto è accaduto al giovane Farouk, 23enne bengalese, la risposta è sì. In questo racconto di Antonio Carlucci, volontario della Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, di Lanciano in provincia di Chieti, prendiamo per mano la storia e un pezzetto della vita di Farouk e lo vediamo reinventarsi, in una veste nuova e migliore, dopo la chiusura del Cas in cui era ospitato. Un racconto costruito su piccoli dettagli, che accendono un faro sulle ingiustizie a cui sono esposti i migranti nel nostro Paese, e su grandi speranze, che si intravedono nel chiaroscuro delle voci che animano le sale della scuola Penny Wirton.

Farouk e il grande equivoco
di Antonio Carlucci

Farouk ha 23 anni. Piccolo di statura come lo sono in maggior parte quelli che abitano il Bangladesh, non è tra gli studenti più assidui. Si lascia andare spesso all’ozio e nella casa di accoglienza è uno degli ultimi ad alzarsi al mattino. Spesso gli insegnanti lo hanno dovuto sollecitare a frequentare le lezioni e ci sono state occasioni in cui, conoscendo le sue abitudini, qualcuno è andato addirittura a prelevarlo.

Ma una mattina, per quelle incomprensibili disposizioni, che sono quanto mai difficili da spiegare ai ragazzi come lui, qualcuno decide che il Cas debba chiudere nel giro di pochi giorni. Vengono invocate le giustificazioni più improbabili, dalla inadeguatezza dei locali (come se fino ad allora le autorizzazioni degli organi preposti avessero perso improvvisamente di efficacia), all’eccessivo affollamento, alle difficoltà in cui si trova la cooperativa che lo ha in gestione.

È una bella domenica di sole quando gli insegnanti della Penny Wirton si danno appuntamento davanti al fabbricato che ospita il Cas. Hanno convocato la stampa, i rappresentanti delle istituzioni locali, alla ricerca di una soluzione che si prospetta quanto mai difficile. I ragazzi assistono con disperazione agli interventi che si susseguono. Riescono a comprenderne a mala pena il significato ma nei loro volti una sola domanda: e adesso? Dove andremo? E questa comunità che si è creata sarà smembrata?

Ci sono tutti, con le ciabatte ai piedi, segno di rilassamento domestico. Tutti meno Farouk. È rimasto in camera e si rifiuta di scendere. È la manifestazione quasi infantile del suo dissenso. Qualcuno sale a chiamarlo ma torna giù solo, perché il piccolo ragazzo del Bangladesh è seduto sul letto con la testa tra le mani. Ha gli occhi pieni di lacrime. Si sente tradito.

Farouk, e come lui una ventina di giovani suoi compagni, si troverà improvvisamente senza casa e senza risorse. Molti dei sui amici devono accettare il trasferimento in uno Sprar non molto lontano, anche se per chi non ha mezzi per spostarsi, trenta chilometri rappresentano una distanza abissale. Uno sradicamento da quella comunità non solo scolastico-educativa ma umana, che superando le tante difficoltà, sta cercando di creare una prospettiva appena dignitosa per questi poveri esseri.

Parte subito la corsa a cercare una soluzione abitativa e Farouk realizza che può ritenersi fortunato quando viene accolto da una famiglia che gli mette a disposizione un locale dove poter vivere.

Certamente è questo che fa scattare in lui la molla della responsabilità. Si rende conto che deve cambiare abitudini. Riprende a frequentare la scuola dimostrando un senso del dovere che fino ad allora sembrava non appartenergli. Viene frattanto pubblicato il bando di concorso nazionale per il servizio civile universale. Nelle diverse regioni sono molteplici le opportunità che si prospettano. Ma sono altrettanto numerose le domande, e quasi tutte di giovani italiani. Tra gli insegnanti della scuola si fa a gara per trovare i servizi con meno richieste di partecipazione. Possono essere proprio questi ad alimentare qualche speranza di rientrare in graduatoria. La sede locale dell’associazione donatori di organi mette a disposizione tre posti  a fronte di un numero di partecipanti piuttosto contenuto. C’è da studiare abbastanza però per competere ad armi pari con gli altri concorrenti. Soprattutto c’è da prepararsi alla prova di ammissione che tra i tanti argomenti prevede la conoscenza nello specifico dei compiti dell’associazione, delle norme che regolano la donazione degli organi, dei rudimenti di anatomia.

C’è un insegnante della scuola che si assume la responsabilità di prepararlo all’esame. L’esordio è disarmante.

– Ritieni che la donazione degli organi sia una iniziativa degna di essere incoraggiata?
– No! Io non lo farei mai, la risposta di Farouk.

 L’insegnante ha un moto di sconforto.

– Ma come Farouk, tu stai per presentarti a un’associazione che fa della donazione lo scopo della sua esistenza. Non puoi rispondere che non la condividi
– Ma io i miei organi non li voglio dare. Non sono come quelli che per necessità sono costretti a venderseli.

Il viso dell’insegnante si apre in un sorriso carico di empatia e di comprensione. Spiega che la donazione è un gesto di altruismo e di amore verso gli altri ed è assolutamente disinteressata. Qui gli organi non si possono vendere.

– Ah, allora sì.

Ora Farouk si sente più tranquillo. Può riprendere la sua preparazione più serenamente.

All’esame si classificherà terzo. Farà un’esperienza che diventerà formativa per lui e otterrà per sei mesi uno stipendio sufficiente a far fronte alle necessità di tutti i giorni.

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